La stagione dei David di Donatello è appena iniziata ma c’è già un record. Per la prima volta in sessantanove edizioni – ma sarebbe più corretto dire dal 1981, anno in cui il principale riconoscimento cinematografico italiano ha introdotto le candidature – saranno premiate tre registe. Sono Margherita Giusti, autrice di The Meatseller, miglior cortometraggio dell’annata (seconda donna nella storia dopo Laura Bispuri, vincitrice nel 2010 con Passing Time); Justine Triet, autrice del miglior film internazionale, il francese Anatomia di una caduta; e Paola Cortellesi per C’è ancora domani, David dello spettatore al film più visto in sala (prima volta per un titolo diretto da una regista).
Il 3 maggio, giorno della cerimonia di premiazione, Cortellesi potrebbe tornare a casa con altre statuette personali: la sua opera prima è candidata in 19 categorie, 5 delle quali direttamente riferibili a lei, cioè film, esordio alla regia, sceneggiatura originale, attrice e David Giovani. Dovesse sbaragliare, diventerebbe la persona più premiata in una sola edizione. Mancherà l’appuntamento con il David alla miglior regia, poiché da regolamento non vi poteva ambire in quanto esordiente. Nessun complotto contro la golden girl del nostro cinema: è una regola istituita nel 2010, all’indomani del trionfo di Andrea Molaioli, la cui opera prima La ragazza del lago vinse ben 9 David, compresi quelli per la miglior regista e per il miglior regista esordiente.
Ma Cortellesi potrebbe diventare anche la sesta donna nella storia – la terza consecutiva – a ricevere la statuetta per il miglior esordio: prima di lei l’hanno vinto Francesca Archibugi (Mignon è partita, 1989), Simona Izzo (Maniaci sentimentali, 1994), Roberta Torre (Tano da morire, 1998), Laura Samani (Piccolo corpo, 2022) e Giulia Steigerwalt (Settembre, 2023). Allo stesso riconoscimento ambisce Micaela Ramazzotti, in gara tra le debuttanti con Felicità.
Quest’anno c’è anche Alice Rohrwacher, che con La chimera è candidata come miglior regista, un premio che non è mai finito nelle mani di una donna.
Qualche dato: i film in concorso diretti da registe sono 20 (di cui 9 opere prime) su 171 iscritti; nel 2023 erano 18 nel 2023 su 141 (8 esordi); nel 2022, 16 nel su 161 (11 esordi); nel 2021, 19 su 147 (7 esordi); nel 2020, 11 su 132 (5 esordi). Al di là delle varie percentuali, è un dato in lieve ma costante crescita che testimonia un maggiore accesso alla professione.
Da segnalare anche che, tra i documentari (forma cinematografica in cui, forse per questioni di budget e margini di manovra, le donne sono più attive rispetto alla fiction), c’è Kasia Smutniak in corsa con Mur: se vincesse, sarebbe la quinta regista in vent’anni (la seconda consecutiva dopo Sophie Chiarello, premiata per Il cerchio).
Insomma, ai David 69 le donne potrebbero fare la storia: oltre ai premi già assegnati per il corto, il film internazionale e il film più visto, le registe potrebbero fare en plein nelle categorie di miglior film (Cortellesi o Rohrwacher), miglior regista (Rohrwacher), miglior regista esordiente (Cortellesi o Ramazzotti), miglior documentario (Smutniak) e David Giovani (Cortellesi). Sarebbe qualcosa di clamoroso, segno di maturità e cambiamento di un sistema sempre più aperto alle autrici, considerando la storia di un premio che con le registe ha avuto un rapporto piuttosto tormentato.
Il cambio di passo
L’abbiamo detto: i David di Donatello introducono le candidature nel 1981 (fino al 2002 terne e occasionalmente cinquine, dal 2003 cinquine), mentre prima di quell’anno le statuette venivano assegnate solo ai vincitori. Tra il 1956 e il 1980 l’unica regista a ricevere un premio speciale è l’americana Claudia Weill (Girlfriends, 1979): nessuna traccia delle italiane, mai una citazione per le pioniere Lina Wertmuller (prima donna candidata all’Oscar per la miglior regia con Pasqualino Settebellezze, film completamente ignorato dalla giuria dei David), Liliana Cavani (nemmeno il successo internazionale de Il portiere di notte le vale un alloro) e Cecilia Mangini (alla cui memoria è oggi dedicato il David al miglior documentario).
Dal 1981 le cose cominciano a cambiare. Lentamente, a volte impercettibilmente.
La prima regista premiata dopo Weill è un’altra straniera: Margarethe von Trotta, miglior regista di un film straniero (categoria in vigore solo negli anni Ottanta) per Anni di piombo (1982). La prima vincitrice come regista esordiente è Francesca Archibugi (Mignon è partita, 1988), anche autrice di Verso sera (1991) e Il grande cocomero (1993), che insieme a Le otto montagne (2023), diretto dalla belga Charlotte Vandermeersch con Felix Van Groeningen, sono gli unici David al miglior film diretti da registe.
In totale, considerando Verso sera, Il grande cocomero e Le otto montagne, i film diretti da donne in corsa per il David più importante sono 13: Francesco di Liliana Cavani (1989), La mia generazione di Wilma Labate (1997), Nico, 1988 di Susanna Nicchiarelli (2018), Euforia di Valeria Golino (2019), Lazzaro felice di Alice Rohrwacher (2019), Le sorelle Macaluso di Emma Dante (2021), Miss Marx di Nicchiarelli (2021), C’è ancora domani di Cortellesi (2024) e La chimera di Rohrwacher (2024).
Oltre a Archibugi, le donne nominate per la miglior regia sono 8 (due di loro hanno fatto doppietta): Wilma Labate (1997), Cristina Comencini (Bianco e nero, 2008), Valeria Golino (2019), Alice Rohrwacher (2019 e 2024), Emma Dante (2021), Susanna Nicchiarelli (2021), Charlotte Vandermeersch (2023). 10 tentativi su 190 candidature totali. È evidente: negli ultimi anni c’è stato un cambio di passo, un po’ dovuto agli spazi via via conquistati dalle registe e un po’ per una diversa sensibilità sul tema.
Situazione un po’ più fluida sul fronte degli esordi. Sono 5 le registe che hanno vinto in quarantatré anni, 21 (su 182 candidati complessivi) quelle che ci hanno provato, 12 delle quali nelle ultime dieci edizioni. La prima a sfiorare la statuetta è Cinzia TH Torrini (Giocare d’azzardo, 1983), seguita da debuttanti destinate a brillanti percorsi (citiamo almeno Francesca Comencini, Pianoforte, 1985; Maria Sole Tognazzi, Passato prossimo, 2004; Nicchiarelli, Cosmonauta, 2010; Rohrwacher, Corpo celeste, 2012) e da attrici popolari al battesimo da registe (Monica Vitti, Scandalo segreto, 1990; Laura Morante, Ciliegine, 2013; Golino, Miele, 2014; Jasmine Trinca, Marcel!, 2023: insomma, non è novità di quest’anno).
5 registe hanno vinto il David per il documentario (premio nato nel 2004), 20 si sono fermate alla candidatura. Qualche nome: Alina Marazzi (Vogliamo anche le rose, 2008), Martina Parenti (con Massimo D’Anolfi, Il castello, 2012), la compianta Valentina Pedicini (Dal profondo, 2014, e Faith, 2021), Federica Di Giacomo (Liberami, 2017), Francesca Mazzoleni (Punta Sacra, 2021), alcune che poi hanno debuttato nella fiction (Caterina Carone, Valentina Postika in attesa di partire, 2010; Maura Delpero, Nadea e Sveta, 2013; Alice Filippi, ‘78 - Vai piano ma vinci, 2018;), altre che frequentano il doc occasionalmente (Tognazzi, Ritratto di mio padre, 2011; Labate, Arrivederci Saigon, 2019; Rohrwacher con Francesco Munzi e Pietro Marcello, Futura, 2022).
2 vittorie femminili su 21 candidature in ventisei edizioni tra i cortometraggi (le prime terne per la categoria sono datate 1997). Tra le nominate, poche registe che poi sono passate al lungo anche molti anni dopo (Nina Di Majo, Spalle al muro, 1998; Emanuela Rossi, Il bambino di Carla, 2008), Paola Randi, La Madonna della frutta, 2009; Marta Savina, Viola, Franca, 2017) e attrici al debutto dietro la macchina da presa (Chiara Caselli, Per sempre, 2000), Amanda Sandrelli, Un amore possibile, 2004; Lorenza Indovina, Ego, 2017).
Il curioso caso di Francesca Archibugi
Prima donna candidata per la miglior regia, Francesca Archibugi perde nel 1991 vantaggio di Marco Risi (Ragazzi fuori) e Ricky Tognazzi (Ultrà). Parliamo dell’edizione con il maggior numero di ex aequo (ben sei) e per non scontentare nessuno furono premiati in qualche modo tutti i maggiori film dell’annata: se a Ragazzi fuori e Ultrà spettarono i doppi riconoscimenti per il produttore e la regia, la logica della ripartizione portò all’assegnazione del premio per il film a Mediterraneo e Verso sera e di quello per la sceneggiatura a Il portaborse e Volere volare. Un perfetto esempio di Manuale Cencelli, con i David alla regia assegnato ai due più “muscolari”, sottolineando (implicitamente?) la natura maschile del mestiere registico.
Copione analogo nel 1993: Archibugi viene sconfitta da Roberto Faenza (Jona che visse nella balena) e ancora da Tognazzi (La scorta). Altra dimostrazione di quanto la giuria tenesse conto del Cencelli: due uomini prevalgono sull’unica donna in gara, anche se quella donna ha diretto il vincitore del David al miglior film.
Omissioni
Candidato all’Oscar per il miglior film straniero (tra l'altro selezionato a sorpresa dopo l'esclusione del designato Private poiché girato non in lingua italiana ma in inglese, arabo e israeliano), nel 2006 La bestia nel cuore non rientra nella cinquina dei candidati al miglior film e Cristina Comencini resta fuori dalla gara per la regia. Certo, l'annata è forte (Il caimano, Romanzo criminale, Notte prima degli esami), ma è curioso lo scollamento tra il Comitato di selezione istituito presso l'ANICA e il gruppo dei giurati dell'Ente David. Per la sua prima e unica candidatura da regista, Comencini deve aspettare il 2008.
A parte una citazione per la produzione, Le meraviglie di Alice Rohrwacher, Gran Premio della Giuria a Cannes 2014, non scalda i cuori dell'Accademia dei David: la nostra regista più internazionale, candidata e non premiata come miglior esordiente, non ha mai ricevuto un David (9 candidature e 0 tituli per Lazzaro felice: che La chimera sia la volta buona?). Nel 2018, Nico, 1988 (premio Orizzonte alla Mostra di Venezia) viene candidato come miglior film, ma Susanna Nicchiarelli non riesce a entrare nella cinquina per la miglior regia. Omissioni curiose, quando il successo di C'è ancora domani non era forse nemmeno ipotizzabile.
I tombaroli, ci racconta Alice Rohrwacher ne La chimera (13 candidature alla 69a edizione dei David di Donatello), sono coloro che effettuano scavi abusivi con l’obiettivo di trafugare reperti archeologici da rivendere nel mercato nero. Il bel film della regista, sospeso tra incanto e disincanto, torna al momento del passato recente, tra gli anni Ottanta e Novanta, in cui il fenomeno dei “predatori dell’arte perduta” dilagava nella Tuscia che un tempo era la terra degli Etruschi. Dice Rohrwacher: “C’è una frase che mi ha segnato: ‘Sono i morti che danno la vita’. Credo che nel passato ci sia una radice comune, una memoria involontaria non vissuta che ci riconcilia gli uni con gli altri”. Che stia parlando anche del nostro cinema?
A leggere i film candidati ai David – e a rileggere quelli degli ultimi cinque anni – verrebbe da dire che il cinema italiano è affare di tombaroli. Magari specializzati, certo, e sicuramente fuori dall’orbita della criminalità. Ma c’è qualcosa nello spirito che accomuna i tombaroli e gli autori, qualcosa che ritroviamo ancora una volta nelle parole di Rohrwacher: “La chimera è un film sulla mancanza”. E se ciò che manca appartiene al passato, la mancanza è qualcosa che ha a che fare con il presente. Che è, forse, la vera chimera: gli unici titoli di punta posizionati nell’oggi sono Io capitano (15 candidature), Adagio (5), L’ultima notte di Amore (4), Disco Boy (2), Felicità (2), Come pecore in mezzo ai lupi (1), Cento domeniche (1), Il più bel secolo della mia vita (1), Denti da squalo (1).
La politica della nostalgia
Come da tradizione, il nostro cinema interroga il passato per capire il presente. Marco Bellocchio è un maestro anche in questo: dopo Esterno notte (i 55 giorni del sequestro Moro, il fantasma della Repubblica) ecco Rapito (11 candidature), un solido e stratificato period drama europeo che torna alla Roma dell’ultimo Papa re, allo scandalo del caso Mortara (la sottrazione di un bambino ebreo da parte delle autorità ecclesiastiche, nel 1858), alla Breccia di Porta Pia che suggella l’Unità d’Italia.
Comandante di Edoardo De Angelis (10 candidature) si spinge oltre: la vicenda di Salvatore Todaro, capo del sommergibile Cappellini, che, dopo aver affondato un mercantile, salva ventisei naufraghi belgi (nemici) come previsto dalla legge del mare, diventa l’occasione per far convergere l’epica bellica e le tensioni d’oggi perché, dopotutto, siamo italiani. A differenza di Bellocchio che parte dal passato per toccare temi universali, De Angelis sembra fare il percorso inverso.
È uscito da un poco una bella raccolta di saggi, La politica della nostalgia, curato da Cristina Baldassini e Giovanni Belardelli (Marsilio), in cui si ragiona su come sia sempre più imperante la tentazione di idealizzare un passato mitico, costruendo un mondo immaginario in cui si stava meglio e quindi da rimpiangere, un po’ per non affrontare le sfide della contemporaneità e un po’ per orientare l’opinione pubblica. La nostalgia appartiene alla sfera delle emozioni, la politica a quella della razionalità: è un cortocircuito che – come dimostrano alcune, spesso grottesche, uscite sulla necessità di “nuova narrazione” – ha un impatto anche sul cinema. (Non è un caso che tra i film in gara nella precedente edizione dei David ce n’era uno con un titolo emblematico, teorico quanto pratico: Nostalgia di Mario Martone, praticamente una metafora).
Se da una parte la nostalgia si fa patologica configurandosi in revanscismo, dall'altra c'è da dire che il nostro cinema migliore ha costruito un discorso profondo e teorico sulla nostalgia. Che, sì, d'accordo, potrà anche essere un'espressione senile, ma è anche un rifugio accogliente, un movimento nobile, un dispositivo di madeleine. C’è il caso particolare de Il sol dell’avvenire di Nanni Moretti (7 candidature): c’è un passato collettivo che viene rievocato nel film in lavorazione, la cui trama è incentrata sulla reazione di una sezione locale del Partito Comunista Italiano alla rivoluzione ungherese del 1956; c’è un passato personale che riguarda la vita e l’opera dell’autore, con gli attori e le attrici del suo cinema, vestiti in stile anni Cinquanta, che marciano lungo via dei Fori Imperiali, tra bandiere rosse e una gigantografia di Trockij; e c’è l’incontro tra le due dimensioni, con una scritta prima dei titoli di coda che immagina l’abbandono della linea filosovietica da parte del PCI e la realizzazione dell’utopia comunista.
Quest’anno sono i documentari a incanalare la migliore nostalgia, celebrando icone della cultura popolare: Enzo Jannacci in Vengo anch’io di Giorgio Verdelli, Io, noi e Gaber di Riccardo Milani, Laggiù qualcuno mi ama su Massimo Troisi di Mario Martone. Ma, sul fronte della finzione, al di là di Mixed by Erry di Sydney Sibilia (2 candidature), che racconta in forma di commedia come i fratelli Frattasio costruirono l’impero delle musicassette contraffatte nella Napoli tra la fine degli anni Ottanta e i primi Novanta, non c’è spazio per un passato idealizzato.
Meno male che è passato
Non lo è quello di C’è ancora domani di Paola Cortellesi (19 candidature), dove semmai c’è una speranza per il futuro (vedasi il primo piano finale dedicato alla figlia della protagonista): la guerra è finita da poco, si mangia poco e si vive peggio, in primis le donne picchiate e offese che trovano un riscatto nel voto del 2 giugno 1946, il primo a scrutino universale.
Non è accogliente il passato seppur prossimo di Palazzina Laf di Michele Riondino (5 candidature), che opera in modo simile a Cortellesi, narrando un fatto reale attraverso una vicenda immaginaria: il caso di mobbing nell’Ilva di Taranto del 1997, quando il Gruppo Riva confinò nel luogo del titolo gli impiegati contrari all’illegale declassamento a operai.
E, nonostante il sole, non è luminoso il passato di Stranizza d’amuri di Beppe Fiorello (2 candidature), che torna liberamente alla storia di Giorgio Agatino Giammona e Antonio Galatola, i due giovani uccisi a Giarre nel 1980: il delitto è tuttora irrisolto, ma la matrice omofoba è indubbia e i sospetti sui familiari più che fondati. Anche qui: sono storie che creano un asse tra passato e presente, mettendo al centro il tema dei diritti (donne, lavoratori, omosessuali). E mettiamoci anche L’ultima volta che siamo stati bambini (1 candidatura), opera prima di Claudio Bisio, nel 1943, teen road movie che parte dalla Roma fascista del 1943. Ma ci sono tanti tipi di passato.
Passato 1: le vite degli altri
A parte l’Edgardo Mortara di Rapito, i David di quest’anno registrano un trend in discesa sul fronte dei biopic. Arriviamo dall’annata più biografica di sempre di Esterno notte (il sequestro Moro), Il signore delle formiche (Aldo Braibanti), Chiara, L’ombra di Caravaggio, Dante (e Boccaccio), senza dimenticare il caso eccezionale de La stranezza, che intrecciando realtà e invenzione restituiva il genio di Luigi Pirandello. Il passato, infatti, è quello dei grandi personaggi della cultura come Eduardo Scarpetta (Qui rido io), Gabriele d’Annunzio (Il cattivo poeta), I fratelli De Filippo, Antonio Ligabue (Volevo nascondermi), Fabrizio De André (Principe libero) ma anche figure meno note (Miss Marx), “comuni” (Lei mi parla ancora, dal memoir di Giuseppe Sgarbi) o problematiche (Giorgio Rosa, creatore dell’Isola delle Rose); e quello, recente, che tocca figure controverse, dall’evocato Bettino Craxi di Hammamet a Silvio Berlusconi e il berlusconismo di Loro, criminali come Tommaso Buscetta (Il traditore) e vittime per non dimenticare Stefano Cucchi (Sulla mia pelle).
Da notare anche quanto i giurati dei David prediligano i documentari biografici: dai vincitori Mi chiamo Francesco Totti ed Ennio (leggende del calcio e della musica, altre nostalgie in purezza) passando per maestri del cinema (Citizen Rosi, cioè Francesco; The Rossellinis, sulla dinastia di Roberto; Se c'è un aldilà sono fottuto, su Claudio Caligari; Fellini fine mai; Friedkin Uncut su William) e perfetti sconosciuti con storie straordinarie (Kill me if you can sul marine Raffaele Minichiello; Svegliami a mezzanotte su Fuani Marino; Arrivederci Saigon sul gruppo Le Stars che suonò per le truppe americane in Vietnam). E poi ci sono le storie collettive, dai doc Santiago, Italia (gli esuli cileni) e Onde Radicali (la Radio) al dramma Capri-Revolution (le avanguardie artistiche del primo Novecento). E che dire di Roma santa e dannata? Non è l'ipotesi per una biografia di una città (eterna, che il tempo lo trascende e lo governa)?
Passato 2: le autobiografie
È un sottogenere che ha due esempi altissimi. Nel campo della finzione, È stata la mano di Dio, che rielabora la vicenda umana di Paolo Sorrentino con la morte dei genitori e l’epifania della vocazione (“A tiene 'na cos' a raccuntà?”). Nel cinema del reale, Marx può aspettare, in cui Marco Bellocchio convoca il fantasma del fratello Camillo, morto suicida nel 1968, per esplorare le zone d’ombra della famiglia e rileggere un’intera filmografia.
È un gruppetto eccentrico che comprende una manciata di titoli: L’immensità, in cui Emanuele Crialese trasfigura l’esperienza personale nei dubbi sull’identità di genere di un’adolescente degli anni Settanta; Padrenostro, ricognizione a tratti onirica sugli anni di piombo attraverso la vicenda del papà vicequestore di Claudio Noce; Magari, dove Ginevra Elkann gioca con le memorie di famiglia negli anni Ottanta. E, in qualche modo, trasversalmente, ci potrebbe rientrare anche La scuola cattolica, non fosse altro perché all’origine c’è il fluviale romanzo di Edoardo Albinati, che analizza da dentro le cause del massacro del Circeo (l’autore era studente dell’istituto da cui provenivano i carnefici).
Passato 3: i ricordi
Il passato è un serbatoio di storie personali, come dimostrano Le otto montagne, ultimo trionfatore dei David, racconto di un’amicizia tra il 1984 e gli anni Dieci del nuovo millennio. Se i fumetti sono un’occasione (mancata: i tre Diabolik che ripensano nel décor l’Italia tra i Sessanta e i Settanta), i romanzi sono le fonti elettive, da Il colibrì e Lacci (entrambi dagli anni Ottanta in poi) a Il pataffio (un Medioevo alla Brancaleone).
Accanto alle cavalcate della e nella storia d’Italia (Gli anni più belli), ci sono anche i margini per immaginare e reinventare la storia: Il primo Natale gioca con la tradizione, Il primo re cerca l’avventura epica, Freaks Out racconta la Resistenza attraverso il fantasy, Suspiria usa l’horror per esplorare l’Autunno tedesco.
Il caso più interessante è sicuramente quello di Chiamami col tuo nome, dove Luca Guadagnino ricostruisce il passato sia sul piano esteriore che su quello interiore: è quello degli anni Ottanta, di cui si riprendono feticci (abiti, scarpe, telefoni), si vedono pezzi d'epoca (treni, auto, bici), si sentono canzoni (Moroder, Battiato, Bertè, The Psychedelic Furs, Sakamoto), si orecchiano dibattiti (la discussione a tavola su Craxi), ma è anche uno spazio più mitico e fluido, tra reperti archeologici che evocano il desiderio, arredamento d'antiquariato, cascine che dialogano con l'inconscio italiano (il ritratto di Mussolini), nomi antichi (Anchise il domestico).
Passato 4: i reperti
Torniamo da dove siamo partiti, cioè Alice Rohrwacher. Quando presentò Lazzaro felice a Cannes, citò Elsa Morante: “Siamo passati dal primo al secondo Medioevo, cioè da quello storico a quello della disgregazione sociale. Tutto cambia ma resta com’era”. L’opera dell’autrice ci porta in un territorio più radicale e poetico, in cui il passato non è una terra straniera ma è in continuità con quel che c’è stato prima e con ciò che verrà dopo. Le sue sono pellicole – letteralmente: dichiarazione d’intenti – che scavano sotto le macerie contemporanee per recuperare un rapporto con il sacro, il mistero, l’arcaico.
Un processo da mettere accanto a quello di Pietro Marcello, che da Martin Eden a Le vele scarlatte (candidato quest’anno per la sceneggiatura adattata) fugge dall’incidenza della cronologia ma non degli eventi e dalle temperie del Secolo Breve, intrecciando la fiction con i materiali di archivio così da confrontarsi con un passato che non va monumentalizzato ma vivificato.
È una tradizione tipicamente italiana che tiene dentro, a vario titolo, Ermanno Olmi, Pier Paolo Pasolini, i fratelli Taviani, Sergio Citti, Cecilia Mangini, e che ritroviamo nelle opere prime di registi che i David hanno premiato o candidato negli ultimi anni. Da Laura Samani, che con Piccolo corpo torna nel Triveneto dell’inizio del Novecento per entrare nel cuore di una favola gotica e primitiva, ad Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis, che in Re Granchio viaggiano nel tardo Ottocento seguendo le leggende della tradizione orale che ancora oggi vengono tramandate. Un cinema archeologico che ci fa capire quanto il passato sia davvero qualcosa di vivo.
Ai David di Donatello 2024, l’età media della cinquina per la miglior regia è di 60,6 anni. Il candidato più anziano è Marco Bellocchio (84 anni: inoltre, il maestro è in assoluto il vincitore più anziano della categoria, avendo trionfato appena un anno fa). La più giovane, Alice Rohrwacher (42 anni). L’anno scorso era 62,1 (ad abbassarla c’erano Felix Van Groeningen, 46, e Charlotte Vandermeersch, 39), nel 2022 57,4, nel 2021 49,5 (incideva la presenza dei gemelli d’Innocenzo, 32), nel 2020 50,8 (con ben tre candidati under 45).
L’età media della cinquina per il miglior esordio è di 46,2 anni. Il più grande è Giuseppe Fiorello (55 anni), il più giovane è Giacomo Abbruzzese (40 anni). Nel 2023 era 40, nel 2022 39,8, nel 2021 38,6, nel 2020 51,2 (ma ad alzare la media c’era Igort, artista affermato che ha debuttato al cinema a 62 anni). 35,6 è l'età media dei registi del miglior cortometraggio (ma c'è Simone Massi, classe 1970, che fa sballare il risultato: gli altri candidati sono nati tra il 1989 e il 1996, la vincitrice Margherita Giusti ha 32 anni).
In Italia, la nazione più anziana dell’Unione Europea, l’età media e di 48,4 anni, quella dei lavoratori è 42,4 anni (dati Eurostat). È corretto dire che la nostra è un’industria in cui l’accesso alla regia di un lungometraggio avviene sempre più tardi? E che per arrivare alla consacrazione (se così intendiamo la statuetta per la miglior regia) bisogna varcare la soglia dei 50 – se non 60 – anni?
La faccenda è un po’ più complessa: le cinquine dei David di Donatello non fotografano un panorama ma ne restituiscono uno scorcio. Più interessante, forse, ribaltare il discorso: più dei film votati, sarebbe interessante riflettere sui votanti. Perché, ogni tanto qualcuno finge di dimenticarlo (o forse non sa), quello dei David è un meccanismo elettorale abbastanza semplice e trasparente in cui vince chi prende più voti (ogni anno e per tutto l’anno, dopo l’annuncio dei vincitori, vengono divulgati tutti i voti sia del primo turno che del secondo: è sempre molto istruttivo vedere come si spostano le preferenze tra uno scrutinio e l’altro).
In sessantanove edizioni, l’età media dei vincitori del David per la miglior regia è di 51,6 anni. Curiosamente, il vincitore più giovane risale all’epoca pre-terne: Ermanno Olmi, miglior regista a 31 anni con Il posto (1962). Record tuttora imbattuto: Gabriele Muccino aveva 33 anni quando vinse con L’ultimo bacio (2001), un anno in meno di Paolo Sorrentino, che ottenne il primo David nel 2005 con Le conseguenze dell’amore, e Jonas Carpignano, trionfatore nel 2018 con A Ciambra. Da segnalare anche le vittorie di Mario Martone (35 anni, L’amore molesto, 1995) e Ricky Tognazzi (36, Ultrà, 1991).
Marco Bellocchio © Karen Di Paola
Come abbiamo già visto, il più anziano è anche il più recente: Marco Bellocchio. Prima di lui, il record apparteneva a Vittorio Taviani (82 anni, Cesare deve morire, 2012) seguito dal fratello Paolo di due anni più giovane, naturalmente per lo stesso film. Primato soffiato a Mario Monicelli, miglior regista nel 1990 a 75 anni con Il male oscuro. Da notare che Bellocchio ha vinto tre dei suoi quattro David di categoria dopo i 70 anni (Vincere, 2010; Il traditore, 2020; Esterno notte, 2023), Monicelli ne ha vinti due dopo i 71 (l’altro è per Speriamo che sia femmina, 1986) e Olmi ne ha vinto un altro (il terzo in carriera) a distanza di quarant’anni dal primo (Il mestiere delle armi, 2002).
Dall’istituzione del premio (1982), l’età media dei vincitori per l’esordio è di 38 anni. Il più giovane a trionfare è Phaim Bhuiyan, 24 anni nel 2020 quando ebbe il David per Bangla, seguito da Daniele Luchetti (Domani accadrà, 27 nel 1988), Francesca Archibugi (Mignon è partita, 29 nel 1989), Saverio Costanzo (Private, 29 nel 2005), Pietro Castellitto (I predatori, 29 nel 2021), Luciano Mannuzzi (Fuori stagione, 30 nel 1982), Stefano Incerti (Il verificatore, 30 nel 1996), Sergio Rubini (La stazione, 31 nel 1991) e Laura Samani (Piccolo corpo, 32 nel 2022).
I vincitori più grandi arrivavano generalmente da altre esperienze. Il più anziano, Gianni Di Gregorio, aveva 60 anni quando fu premiato per Pranzo di ferragosto nel 2009 ed era già sceneggiatore per Matteo Garrone. Luciano De Crescenzo (Così parlò Bellavista, 55 nel 1984) era autore di best seller e personaggio televisivo, Leonardo Di Costanzo (L’intervallo, 55 nel 2013) aveva diretto documentari, Rocco Papaleo (Basilicata coast to coast, 52 nel 2011) si era visto come attore in tanti film popolari, Francesco Bruni (Scialla!, 50 nel 2012) scriveva sceneggiature da due decenni.
Diversa la situazione dei cortometraggi. Negli ultimi cinque anni abbiamo visto vincitori under 30 (Domenico Croce e il compianto Stefano Malchiodi per Anne, entrambi 29 anni nel 2021) o giù di lì (Lorenzo Tardella, Le variabili indipendenti, 31, 2023), ma anche quarantenni (Nico Bonomolo, Maestrale, 48, 2022: è il più adulto tra i premiati della categoria; Alessandro Di Gregorio, Frontiera, 45, 2019) e dintorni (Giulio Mastromauro, Inverno, 37, 2020). Dall'istituzione del riconoscimento (1997), il vincitore più giovane è Enrico Iannaccone, 23 anni quando vinse per L'esecuzione (2013), record che mantiene in assoluto considerando tutte le categorie che premiano un regista (film, regia, corto, doc, esordio).